Dakar | Jacopo Cerutti: “La seconda settimana è stata troppo veloce e poco tecnica: se resta così non torno nel 2021” [INTERVISTA]
Jacopo Cerutti racconta la sua Dakar
Il terzo atto della storia della Dakar si è concluso la scorsa settimana, con l’edizione 2020 che ha incoronato in ogni categoria i propri trionfatori, da Carlos Sainz a Ricky Brabec passando per i vincitori tra i SSV, Quad e Camion.
L’Italia ha onorato il rally raid più leggendario e massacrante al mondo con in particolare gli ottimi piazzamenti nella classifica finale degli alfieri del team Solarys Racing, ovvero Maurizio Gerini e Jacopo Cerutti, entrambi in sella alla Husqvarna FR 450 e rispettivamente 20esimo e 22esimo. Tra i due, il comasco ha ottenuto come miglior risultato di tappa alla sua quinta Dakar un tredicesimo posto nella sesta speciale, affrontando difficoltà sia fisiche che mentali, ma riscattando alla fine il ritiro del 2019. Già quattro volte campione italiano nel Motorally ed altrettante anche nell’Enduro, Jacopo Cerutti ha accettato di raccontare ai nostri microfoni la sua avventura in Arabia Saudita chiusasi lo scorso venerdì.
Partiamo da un giudizio sulla prima Dakar in Arabia Saudita. Sicuramente ci saranno stati degli aspetti positivi ed altri invece su cui c’è ancora da lavorare: anzitutto, la maggior enfasi sulla navigazione ha fatto sì che questa edizione fosse differente dalle precedenti che hai corso oppure questo aspetto è rimasto solo sulla carta?
«No, secondo me la Dakar è cambiata tanto passando all’Arabia Saudita, però c’è da fare una distinzione tra le due settimane di gara perché mentre la prima è stata davvero più navigata e questo aspetto risultava più importante, nella seconda invece abbiamo vissuto una Dakar troppo veloce, molto poco improntata alla navigazione e più brutta delle aspettative.
Se quindi la prima settimana mi è piaciuta molto sia come terreni che come paesaggi, bellissimi, ed anche come navigazione, la successiva per me è stata un po’ deludente perché troppo veloce e pericolosa. Sono state due settimane distinte, ma il fatto di correre in Arabia Saudita è stata una cosa che mi è piaciuta molto, perché parliamo di un posto nuovo con paesaggi bellissimi, però è stato meglio nella prima settimana».
Jacopo Cerutti: “La consegna dei roadbook la mattina è stata una buona idea”
L’anno scorso ci furono le polemiche sui roadbook: ritieni che il lavoro svolto dagli organizzatori per evitare le controversie del 2019 abbia risolto ogni problema? La consegna dei roadbook pochi istanti prima di alcune tappe è stato un esperimento riuscito?
«Sì, secondo me è stato fatto un ottimo lavoro in quel senso, forse addirittura in sei tappe ci è stato consegnato il roadbook il mattino stesso. A parte il fatto che è comunque meglio per i piloti che possono avere più tempo per riposarsi, ed oltretutto è una cosa che ci mette tutti sullo stesso piano, e si navigava anche meglio, più tranquillamente. Senz’altro è stata quindi una buona idea, inoltre ci venivano consegnati già colorati ed è molto più comodo così, visto che non si faceva in tempo ad evidenziarli (e tra l’altro erano anche evidenziati molto bene). È stato fatto un gran passo in avanti, senza dubbio.
Il roadbook era fatto quest’anno molto bene: se ci sono stati problemi è per una questione più di percorsi che di mappe».
“È stata una Dakar più facile rispetto a quelle sudamericane, ma troppi rischi per chi punta alla classifica”
Rispetto al Sudamerica, il fondo dei tracciati di questa Dakar sono stati molto più ardui da affrontare? Penso ad esempio alla tante forature nei tratti off road, soprattutto per i mezzi 4×4…
«Secondo me no, ci sono state giusto un paio di tappe molto impegnative anche per i mezzi, però in generale è stata una Dakar un po’ più facile rispetto al Sudamerica, e quindi secondo me quello è stato un aspetto meno rilevante del solito».
Passando agli aspetti più dibattuti di quest’anno, molti piloti di peso (penso, tra le Auto, a Sainz o Peterhansel) hanno fatto notare l’eccessiva velocità di alcune tappe di questa Dakar, argomento a cui ha accennato tu stesso. Può essere un problema su cui gli organizzatori debbono lavorare?
«Nella seconda settimana abbiamo fatto delle medie un po’ folli, in qualche tappa abbiamo raggiunto i 110, 115 km/h di media, ed il problema è che li abbiamo toccati in tappe in cui per il 90% eravamo su dei fuoripista, dove non si può avere la certezza di trovare un pericolo o meno: quando sei invece a 120 all’ora su una pista, se c’è un pericolo o un avvallamento lo trovi segnato sul roadbook, mentre quando sei fuoripista è chiaro che vai più ad occhio. Solo che con medie orarie così alte non è facile tenere a vista tutti i pericoli. Per questo ci sono stati tanti incidenti anche brutti, nonostante fossero tappe praticamente molto poco impegnative.
Non mi è piaciuto affrontare speciali così veloci e poco tecniche. Se la Dakar dovesse restare così non so quanto mi farebbe piacere tornarci per fare classifica, perché nella seconda settimana, anche dopo quanto successo a Paulo Gonçalves, la voglia di rischiare e di andare troppo forti nei fuoripista non c’era per niente. E i punti tecnici in cui fare la differenza non c’erano, per cui è stato un po’ frustrante come finale della Dakar. Secondo me gli organizzatori dovrebbero fare delle modifiche nel percorso, sennò diventa una corsa facile per chi vuole finirla ma troppo pericolosa per chi punta alla classifica».
Com’è la giornata di un pilota alla Dakar? Quali sono le vostre abitudini pre e post tappa?
«Ci si sveglia a seconda della tappa, ma più o meno alle quattro, quattro e mezza, ed in un’ora e un quarto facciamo colazione e prepariamo tutto; partiamo poi dal bivacco per un trasferimento più o meno lungo verso la speciale in cui si prende anche parecchio freddo, visto che in Arabia Saudita in questo periodo il clima è rigido (in alcuni punti c’era anche la neve, anche se non era così freddo: ma comunque con 3-5 gradi al mattino, correndo per 200 km sull’asfalto a 120 all’ora fai in tempo a congelarti).
Dopo la speciale altro trasferimento e si arriva al bivacco verso le tre del pomeriggio, pranzo veloce e poi si preparano le cose, alle sette la cena e alle nove si va a letto. Questo è la giornata tipo».
Per un team privato la Dakar è un po’ come se fosse l’Olimpiade per uno sportivo di nicchia, ovvero la possibilità di correre in un evento che gode di una certa popolarità tra il grande pubblico. Come è riuscita una piccola ma comunque solida realtà come Solarys Racing (che ha contribuito a rendere Castiglion Fiorentino la capitale italiana della Dakar) a piazzare nel corso degli anni i suoi due piloti verso i migliori venti piazzati della Dakar?
«Sicuramente tutto è nato dal fatto che Castiglion Fiorentino è la città di Meoni [Fabrizio, indimenticato pilota vincitore di due edizioni della Dakar nei primi anni Duemila, scomparso dopo un incidente nella edizione del 2005, ndr], quindi lo spirito c’è sempre stato. Un po’ alla volta è nata una struttura che ci permettesse di correre a livello internazionale, l’unica in Italia che schiera piloti sia all’Africa Eco Race che alla Dakar, e quindi grazie alla passione e all’impegno dei piloti si è potuto creare una struttura che ti porta sul podio dell’Africa Eco Race o tra i primi venti della Dakar. Per un team privatissimo italiano è un gran bel risultato».
“Dopo la morte di Gonçalves non è stato facile proseguire”
Il momento però più difficile è stato la scomparsa di Paulo Gonçalves. Non vogliamo indugiare su quello che hai provato – hai raccontato di esserti trovato lì dopo l’incidente – perciò vogliamo chiederti: come si riesce ad andare avanti? Voi convivete con la paura, con il rischio, ma quando avviene un fatto così tragico come si riesce l’indomani (anche se la vostra tappa è stata poi sospesa) a ritornare a pensare alla gara?
«Non è stato facile, perché si è trattato di qualcosa che ci ha scosso tutti e tornare in gara è stata dura. La sera stessa se avessimo potuto saremmo tornati a casa. Però eravamo lì per finire la Dakar per una passione ed un impegno in comune, e sappiamo che questa corsa non si è mai fermata davanti ai lutti e non lo avrebbe fatto neanche questa volta.
Perciò anche per onorare chi non c’è più pian piano abbiamo recuperato e ci siamo ripresi un po’ per arrivare al traguardo. E alla fine siamo riusciti a finirla. Chiaro che non sia stato facile».
In questi casi ci vuole più coraggio o incoscienza?
«Per andare forte più incoscienza; per fare una buona gara ci vuole tanto coraggio, ma per andare forte davvero serve l’incoscienza, soprattutto con speciali così veloci e rischiose come sono state quest’anno».
Cosa prevede il programma del resto della stagione 2020 per Jacopo Cerutti?
«Correrò tutto il Campionato Italiano Motorally, poi il Merzouga a maggio. Penso farò anche il Mondiale in Marocco a settembre, e nel frattempo anche qualche gara di Enduro».
Quindi riprendi il discorso sulle gare enduro…
«Avevo un po’ lasciato questo tipo di competizioni negli anni scorsi ma magari in questa stagione, se non ho troppe concomitanze, mi piacerebbe tornare a fare un po’ più di enduro e dedicarmici dopo averlo lasciato da parte»
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