W Series, il campionato femminile che fa discutere. Giovanna Amati: “Serve il confronto con gli uomini”
Infuria il dibattito sulla serie riservata alle donne
Nella prossima stagione il motorsport avrà una nuova serie, che si differenzierà dalle altre perché sarà dedicata solo ed esclusivamente alle donne. La W Series sarà infatti un campionato con monoposto di Formula 3 che si si svilupperà per sui circuiti europei, con la possibilità in futuro di fare delle trasferte nei continenti americano, asiatico ed australiano. Ma l’iniziativa non è stata accolta da un coro di lodi, bensì sta scatenando un dibattito tra favorevoli e contrari – e tra questi ultimi ci sono proprio le dirette interessate, le donne.
Il format della W Series
Prima i fatti: la prima stagione del 2019 vedrà un griglia composta dalle 18 alle 20 piloti (o pilotesse, fate voi), selezionate secondo una rigida procedura il cui iter prevede test sul circuito, prove al simulatore, lavoro con gli ingegneri, allenamento fisico e via discorrendo, come recita il sito ufficiale della W Series. Chi supera questa fase procederà a quella successiva che prevede un ulteriore affinamento, seguite da professionisti del settore in cui figurano da grandi nomi della Formula 1 – dentro e fuori la pista – come l’ex pilota David Coulthard, uno dei migliori progettisti ed ingegneri quale è Adrian Newey, l’ex manager di McLaren e Manor Dave Ryan, il giornalista di lungo corso nonché per dieci anni capo della comunicazione per McLaren Matt Bishop.
Concepita come trampolino di lancio per le piloti verso campionati di livello superiore, la W Series prevede un montepremi totale di 1.500.000 dollari, di cui 500.000 andranno alla vincitrice. Le partecipanti, in attesa di conoscere gli esiti delle selezioni che ci sveleranno la start list del 2019, , correranno tutte con delle monoposto Tatuus T-318 motorizzate con dei quattro cilindri da 1,8 litri turbo forniti da Autotecnica Motori, l’azienda italiana di Casalmaggiore nata nel 1977, già partner della F4 italiana e di quella tedesca, oltre a sviluppare motori per le corse GT ed ovviamente F3. Il cambio delle Tatuus è di sei rapporti, l’abitacolo è fornito di Halo e la potenza massima che sviluppano è di 270 cavalli.
Il dibattito sulla W Series e l’opinione di Giovanna Amati
Fin qui le notizie ufficiali in nostro possesso, in attesa di scoprire il calendario 2019 e le venues scelte. Tuttavia la W Series ha diviso l’opinione degli addetti ai lavori, e la cosa che colpisce è che alcune critiche sono arrivate dalle donne stesse. Se da una parte abbiamo pilotesse favorevoli alla iniziativa come Alice Powell, Jamie Chadwick, Vicky Piria (tra le nostre connazionali di talento più in vista nel motorsport) e Tatiana Calderón, data puntualmente per prossima alla F1, altre come Pippa Mann e Sophia Floersch hanno storto il naso. La prima donna a competere nella 500 Miglia di Indianapolis parla di una iniziativa «segregazionista» che considera le ragazze in base al loro sesso e non alle loro capacità di piloti, mentre l’attuale portacolori del team Van Amersfoort Racing in Formula 3, pur apprezzando l’idea di fondo, considera sbagliato far competere le donne in un campionato a parte, portando avanti la stessa motivazione della Mann.
Noi di Motorionline abbiamo sentito direttamente Giovanna Amati, una delle ultime donne ad aver corso in Formula 1, che ci ha fornito anch’essa un punto di vista sulla W Series molto critico, argomentandolo così: «La macchina non è adatta a fare una vera selezione: è una F3 da campionato asiatico, molto pesante e da solo 270 cv. Non è possibile farne uscire un vero talento visto che l’automobilismo è composto soprattutto da uomini: il confronto va fatto con loro». Propone la sua idea alternativa: «Se ci tenevano veramente avrebbero dovuto spendere quel budget per fare un team di donne in F3 europeo o in F2», ed affonda il colpo: «Così chi ci guadagnerà sarà soltanto l’organizzatore con un baraccone pubblicitario che si sgonfierà preso. C’è stata un’altra iniziativa simile negli USA, il campionato Panoz dove ho corso: hanno chiuso dopo due stagioni. Non ha senso, l’automobilismo è uno sport da classifiche unificate».
Tra le opinioni invece favorevoli, ça va sans dire, le menti dietro la creazione della W Series (praticamente tutti maschi!), come Coulthard, il quale ha affermato che «non bisogna essere un uomo per correre» e che la nuova serie nasce dalla volontà di porre sullo stesso piano i due sessi affinché possano competere sullo stesso piano, e per fare ciò bisogna che le pilotesse sfondino il tetto di cristallo che impedisce loro di andare oltre il livello GP3/Formula 3 («spesso più per mancanza di fondi che per mancanza di talento», spiega l’ex McLaren). Anche Newey parla di carenza di opportunità più che di abilità quando si riferisce ai motivi della scarsa presenza femminile nelle corse, e ritiene la W Series un passo verso, magari, la F1. Interessante poi quello che si augura Ryan, ovvero la possibilità che le donne, grazie a questo nuovo campionato, possano essere incoraggiate negli studi scientifici, tecnologici e matematici (pensare che in Italia ci siamo fissati sul dibattito lunare se possano esistere scienziati e fisici di sesso femminile…).
Il difficile equilibrio tra il genere e il merito
Insomma, entrambe le tesi hanno le loro ragioni da vendere perché se è vero che l’iniziativa è lodevole e fare qualcosa magari sbagliando è sempre meglio che non fare nulla, dall’altra parte il progetto ha lo sgradevole retrogusto della riserva indiana, che se non rispetterà la mobilità verso le serie maggiori e non avrà la giusta visibilità rimarrà un recinto chiuso e fine a sé stesso (molto dipenderà anche dagli sponsor). In tempi in cui finalmente le donne continuano ad emanciparsi dal ruolo di oggetto o di orpello c’è però il rischio di una corsa non tanto in pista ma nell’essere il più corretti possibile: per dirla alla Pietro Nenni, «a fare a gara nel fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».
Dal movimento #MeToo in poi sembra ci sia un’ansia da politically correct che porta a delle iniziative nei confronti delle donne lodevoli nel merito, ma che alla fine potrebbero rivelarsi un boomerang nonché mortificanti nei loro confronti. Nel caso della W Series si spera che il processo di selezione sia tale affinché si premi il merito, non soltanto il fatto del genere (altrimenti saremmo sullo stesso livello delle quote rosa, a proposito di riserve indiane). La chiave alla fine è quella, ovvero la meritocrazia, affinché non si mandi allo sbaraglio una pilota solo per quello che c’è scritto alla voce “sesso” sulla carta di identità, ma possa invece crescere, farsi le ossa: e se è vero che negli altri sport esistono le distinzioni di genere (con odiose distinzioni tipo le differenze di montepremi nel tennis o le altimetrie semplificate e il taglio dei percorsi nel ciclismo), nel motorsport l’idea che una donna non possa far mangiare la polvere ai colleghi uomini è una comoda ed astuta bugia. Servirebbe una Billie Jean King o una Lindsey Vonn delle quattro ruote pronta a svelare che il re è nudo e che si può gareggiare in pista o su strada tra uomini e donne, con le stesse vetture, gli stessi motori e le stesse condizioni di partenza. Qualcosa si sta facendo, soprattutto con i programmi FIA che partono dalle basi affinché le giovanissime si avvicinino a questo mondo, per poi proseguire con le sessioni di valutazione per le migliori rappresentanti delle corse sportive (fortunatamente al mondo non sono poche), sempre organizzate dalla Federazione. Ma c’è ancora molta strada da fare per far sì che «ci si abitui» alle donne nel motorsport, come ci ha detto in una recente intervista la creatrice del progetto Wheels&Heels Anna Mangione. E fare così in modo che le uniche donne che vedremo in pista non siano solo le ombrelline e le grid girls (sì ok, la F1 è corsa ai ripari, ma c’è un universo sconfinato dell’automobilismo sportivo dove a volte le presenze femminili vengono contemplate come mute, sorridenti e con scollature vertiginose: ma questa è un’altra storia).
Copyright Immagine di Copertina: Giovanna Amati
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