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Dakar | Nicola Dutto: “Uscire così è qualcosa di meschino. Vedremo se fare ricorso” [INTERVISTA]

La Dakar 2019 si appresta a concludere la sua parabola, con le ultime due tappe previste tra oggi e domani: nell’attesa di scoprire i vincitori di ogni categoria, possiamo già dire che l’edizione di quest’annp ha mantenuto le promesse di durezza (caratteristica consueta di questo rally raid, ad essere sinceri), ed imprevedibilità. Ma se c’è qualcosa che forse era difficilmente preventivabile è il caos organizzativo vissuto in questi giorni, con alcuni piloti (anche di peso) sul piede di guerra tra roadbook non proprio non esatti e qualche carenza organizzativa. Ma il caso che più ha fatto discutere e suscitato un’eco mediatica è stato quello di Nicola Dutto, primo pilota paraplegico nel settore moto al via nella storia della Dakar.

Il cuneese è un tenace ragazzo di 48 anni che da più di 20 corre sulle moto ad alto livello, ottenendo titoli nazionali ed europei. L’incidente che nel 2010 gli costò l’uso delle gambe non lo ha fermato e ha continuato a gareggiare con una KTM modificata anche a livello internazionale, come nel Mondiale Desert Race. Quest’anno il debutto storico nella Dakar, che però per Dutto si è interrotta prima del previsto.

La disavventura di Nicola Dutto alla Dakar 2019

Il pilota correva con tre ghost riders per sostenerlo in caso di necessità, e le cose stavano procedendo normalmente sino alla quarta tappa, la prima parte della Marathon: al chilometro 78 il motore del mezzo di uno dei piloti che scortava Dutto, Victor Rivera, ha smesso di funzionare richiedendo un intervento straordinario di riparazione di due ore. Non è però bastato, perché una volta ripartita la moto ha cessato di correre fermandosi irrimediabilmente. L’odissea di Dutto è poi proseguita con il forfait del mezzo dell’altro ghost rider, Julian Villarubia: di conseguenza il cuneese ha optato di procedere direttamente verso il bivacco per effettuare le riparazioni, e poi ripartire il giorno dopo anche se con una eventuale penalità. Una possibilità che richiama la fu regola del Rally 2 delle competizioni rally, ovvero il ritiro temporaneo e per necessità, con ritorno in gara, che era previsto anche dal regolamento della Dakar.

Qui incomincia invece una situazione dai contorni grotteschi e kafkiani: al Way Point la direzione gara aveva comunicato alla carovana di aver approvato la scelta del ritiro strategico, cosa che ha confortato Dutto e soci nel procedere verso il bivacco. Una volta giunti qui, però, la stessa direzione ha squalificato il pilota perché aveva abbandonato il tracciato di gara, percorrendo un tratto in asfalto. Dutto tuonò contro quella decisione, presa in contraddizione a quanto gli era stato detto di fare, usando dei toni molto duri e minacciando di non tornare mai più alla Dakar. Ma le assurdità non erano finite, perché nel mentre che il pilota, il venerdì mattina, era già a bordo del camion con tutto il team e lo staff giacché ormai squalificato e perciò sulla strada del ritorno a casa, la direzione della Dakar ha rilasciato un comunicato ufficiale che affermava il fatto che Dutto fosse in realtà ancora in gara. Nuova squalifica quindi, perché il cuneese non si è presentato al via della tappa, essendo già pronto per lasciare il Perù.

Abbiamo perciò sentito direttamente lo stesso pilota per offrirci il suo punto di vista su questa pazzesca disavventura e il suo commento a mente fredda e bocce ferme sulla Dakar 2019.

La versione di Nicola Dutto sulla sua squalifica

Nicola, la direzione gara ha ha affermato nella motivazione della tua prima squalifica che tu avresti dovuto dirigerti almeno al terzo WP o finire comunque la tappa…

«Allora, alla luce di quanto è avvenuto in questi giorni mi è sembrato di stare più in un circo che in una gara. Noi siamo arrivati al punto di neutralizzazione e lì abbiamo chiesto ai marshall come avremmo potuto fare per arrivare al WP3. C’erano da fare una cinquantina di chilometri su asfalto, per poi riprendere il fuoristrada e la gara vera e propria. I marshall ci hanno detto di non riprendere lo sterrato ma di proseguire su asfalto, arrivare così al terzo check point, timbrare e giungere al paddock. Io avevo qualche dubbio comunque, ho chiesto se erano certi di questa procedura e di informarsi con la direzione gara. I marshall hanno comunicato due volte con quest’ultima chiedendo cosa dovevamo fare, tanto è vero che la seconda volta ci hanno mostrato loro la cartina con la strada che avremmo dovuto seguire. E così ho seguito le loro istruzioni.

Poi quando sono arrivato al bivacco il direttore di gara mi ha invece detto che avrei dovuto seguire il tratto in fuoristrada. Grazie tante, ma se prima mi dicono di seguire dei determinati percorsi confermati dalla stessa direzione gara, io seguo quelle indicazioni. Non mi sogno neppure di deviare dal percorso per mia spontanea volontà».

E al bivacco cosa ti hanno risposto davanti alla tua obiezione?

«Si sono sentiti al telefono per un po’ l’organizzatore e il direttore di gara, hanno telefonato anche ai marshall, e alla fine la loro giustificazione è stata che anche se questi ultimi mi avevano dato l’indicazione sbagliata, la posizione ufficiale era la loro, dei direttori di gara, e quindi eravamo fuori dalla Dakar 2019».

Senza alcuna possibilità di reintegro?

«Esattamente. Ci abbiamo provato, dissi “c’è stato un errore, da parte mia o da parte vostra, ma io sono qui per finire la gara, non per andare a punti: mi stanno bene anche sei ore di penalità, quello che volete, ma riportatemi in gara. Qual è il problema?”.

Casomai, il problema di comunicazione c’è stato tra di loro e il personale di ASO, noi abbiamo seguito le indicazioni così come altri concorrenti che erano lì presenti, c’erano auto, camion… e hanno fatto il nostro stesso percorso. Purtroppo, nel paddock – e ti parlo a tutti i livelli, dai rookie ai veterani – hanno notato tutti una certa disorganizzazione».

In effetti, in questi giorni si è discusso molto degli errori nei roadbook, e le critiche rivolte da piloti di livello tra auto e moto come Sainz, Walkner, Barreda, quest’ultimo finito in un fosso per via di un tratto non segnalato e costretto a ritirarsi dalla Dakar…

«Se finisci in un catino del genere, infatti, non ne esci più, sei morto. Se da lì non esce uno come Barreda vuol dire che non può farlo nessuno. Purtroppo c’è un malumore generale per queste prese di posizione da parte di ASO, del tipo: anche se ci fossero errori, si va avanti e si fanno spallucce. Ieri Kevin Benavides è stato penalizzato di tre ore perché aveva delle note aggiuntive, come hanno detto: ma da regolamento, sino a ieri, si poteva fare. Non puoi aggiungerne al roadbook, ma se sulla moto vuoi, per tua sicurezza, mettere una nota del tipo al “km x devo seguire quel tratto”, la cosa era fattibile. Da oggi non più, e Benavides è fuori dai giochi per la vittoria.

Il problema mio, e quella che considero la grande fesseria che hanno combinato, riguarda quanto è successo nella notte della mia esclusione. Si sono resi conto dello sbaglio, ma nel frattempo non abbiamo ricevuto i roadbook per la tappa seguente, ci hanno tolto dai mezzi gli strumenti di navigazione per poi il giorno dopo ufficializzarmi come abile alla partenza. In questo modo hanno coperto il loro errore e le loro spalle, perché il giorno dopo non mi sono ripresentato al via essendo squalificato, e quindi per loro ho abbandonato. No, le cose non stanno così. E tutti i piloti sono testimoni di quanto accaduto.

Torno a casa amareggiato dalla Dakar 2019, non per la gara che sapevo fosse dura come è normale che sia, ma per l’organizzazione, che fa il bello e il cattivo tempo eliminando i problemi dicendo “C’est la Dakar”».

“La mia esperienza alla Dakar si chiude qua”

Pensi di fare ricorso, di adire le vie legali?

«Valuteremo una volta tornati a casa, con calma, magari assieme a KTM. Personalmente però posso dirti che per me l’esperienza Dakar si chiude qua: mi è andata via la voglia, non è un bell’ambiente da vivere. Ho partecipato a tutte le gare più dure al mondo, sia da normodotato che da paraplegico, ed una cosa del genere non mi è mai capitata. L’idea generale è che loro debbano fare cassa, avere il portafoglio pieno e levarsi i problemi il prima possibile.

Magari pensavano che noi avremmo disputato la prima tappa ed avremmo lasciato successivamente con le pive nel sacco. Invece abbiamo dimostrato di essere dei leoni e di lottare come dei leoni. Siamo sempre stati nei tempi, con pure i problemi tecnici che capitano a tutti, ma abbiamo gareggiato, dimostrando che a Lima potevamo arrivarci. Forse potevo cadere, farmi male… ne capitano di ogni in 5.000 km di gara, ma uscire così è qualcosa di meschino».

Perché pensi che la tua partecipazione potesse dare fastidio, come si è detto nei giorni scorsi?

«Questa è una interpretazione che mi è arrivata da molti tuoi colleghi, e mia moglie me la ripeteva da molto tempo. La Dakar è una corsa dura, che molti piloti faticano a terminare. Il problema è che se la finisce un paraplegico in moto, non verrebbe più considerata così dura. Non perché Nicola Dutto è forte, si è allenato, può essere considerato un pilota come tutti gli altri e preparato per un rally raid del genere».

Mettiamo, per assurdo, che ti chiami ASO e ti porgano le loro scuse: in quel caso riconsidereresti un ritorno alla Dakar? O il discorso è proprio chiuso?

«No, non mi interessa. Intanto non lo faranno mai. E comunque non cambia nulla, e l’organizzazione della Dakar sta andando sempre peggio e non lo dico io, ma molti piloti di esperienza con cui ho parlato».

E cosa si potrebbe fare allora per risollevare la situazione?

«Bisognerebbe cambiare la testa dell’organizzazione, tornare all’umanità di un tempo. Poi la possono fare di nuovo in Africa, in Cina e così via, ma lo spirito deve tornare quello che era negli anni scorsi».

Al di là di tutto quello che è successo, oltre alla Dakar, dove vedremo impegnato Nicola Dutto? Insomma, le tue prossime gare?

«Molto probabilmente tornerò nel mio deserto, in quello che amo di più, ovvero del Baja California o Nevada, e le Desert Series negli Stati Uniti. Invece a livello organizzativo, appena rientro sarò impegnato con l’eBike Raid Adventure, che non è una gara ma una avventura che abbiamo inventato Roberto Boasso [il suo meccanico, ndr] ed io, già l’anno scorso con le MTB elettriche sulle nostre montagne, e che rispecchia lo spirito della Dakar, con tracce, GPS, roadbook, bivacchi… Sarò quindi impegnato a sviluppare questa gara».

Infine, a prescindere da quanto è avvenuto alla Dakar, senti di essere un pioniere per molti piloti e sportivi (o aspiranti tali) che hanno a che fare con una disabilità?

«Beh mi sentivo un pioniere anche prima, perché da alcuni anni a questa parte ho rotto un po’ gli schemi, però effettivamente sì, ho aperto una porta. E mi auguro che siano in tanti ad aprire questa porta, e seguire un percorso del genere, che sia su una moto da strada o qualunque mezzo. L’importante è seguire le proprie passioni. Io ero un pilota prima dell’incidente e sono tornato al mio mestiere in seguito: permettimi il paragone, ma il ragionier Filini della situazione che non è mai andato in moto, magari ha avuto un incidente, resta paraplegico e mi dice “voglio andare in moto, voglio provare il fuoristrada”, allora la vedo dura, perché soprattutto per l’off road devi avere tantissima esperienza.

In ogni caso sono felice del seguito che ho, penso ai tanti ragazzi che mi sostengono come quelli del team Diversamente Disabili che portano in pista piloti amputati o in carrozzella [tra l’altro i ragazzi che fanno parte di questa squadra corrono dal 2013 nelle classi 600 e 1000 STK del Bridgestone Champions Challenge, facente parte del circuito Coppa Italia FMI e scendendo in pista con i normodotati, ndr]. Recentemente mi sono sentito con un ragazzo che ha avuto un incidente qualche anno dopo di me ed è stato ricoverato nel mio stesso reparto: gareggiava con la motocross ed ora l’ha ripresa, vuol provare anche con il freestyle… Sai è tanta energia buona, pulita, che dà l’esempio ad altri. Così non si sta fermi, seduti su una sedia a rotelle, aspettando che la vita ti passi davanti.

Ad un giornalista giapponese che mi ha rivolto qualche giorno fa una intervista e che mi chiese qual era la cosa più difficile sperimentata in questi anni, io ho risposto la burocrazia. È quello che ti ammazza; per il resto, se una cosa ce l’hai in testa, la fai».

Luca Santoro:
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