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La comprovata (e plateale) inefficacia della W Series

Il titolo parla da sé: la W Series, la serie monomarca riservata solo ed esclusivamente alle donne, è totalmente inutile ai fini della promozione delle quote rosa nel panorama automobilistico sportivo internazionale. Non lo dice chi scrive queste righe, anzi: è la stessa W Series, attraverso la sua – per ora – brevissima storia, a confermare questa tesi. Qui spieghiamo brevemente perché.

Il buon esordio e il difficile proseguimento

Sono già passati quattro anni da quando la W Series venne lanciata nell’ormai lontano 2018, in risposta alla mancata presenza delle ragazze nelle categorie di vertice del motorsport. Ai tempi ci furono ampi consensi ma, allo stesso tempo, tante critiche, soprattutto da personaggi di spicco quali Michele Mouton, Pippa Mann e Simona de Silvestro.

Eppure, le premesse iniziali erano davvero molto buone: iscrizione completamente gratuita dopo una lunga e attenta selezione nei mesi precedenti, un montepremi di un milione e mezzo di dollari (di cui un terzo va alla vincitrice) e un calendario europeo di sei appuntamenti al fianco del ben noto DTM.

A Hockenheim, al debutto assoluto, la serie si è dimostrata essere interessante, anche se fin da subito sono state notate delle grandi differenze in termine di performance tra le migliori (come Jamie Chadwick) e le ultime classificate. Ma se l’obiettivo era quello di dare spazio a tante ragazze che, per un motivo o per un altro, hanno problemi di sponsorizzazioni, non era di certo un problema da sottolineare.

Tuttavia, la mazzata è arrivata con la pandemia di COVID-19, che ha costretto la dirigenza ad annullare l’edizione 2020, e l’accordo di accompagnare la Formula 1 dal 2021, che ha alzato notevolmente i costi di gestione e di logistica. Non è un caso se, proprio quest’anno, sono arrivati i primi problemi finanziari: al di là dei presunti mancati versamenti da parte di alcuni finanziatori, la W Series ha corso a Singapore con le Tatuus-Toyota della Toyota Racing Series per risparmiare e, allo stesso tempo, mandare con largo anticipo le vere Tatuus-Alfa Romeo negli Stati Uniti d’America. Una soluzione che, alla luce della notizia di qualche giorno fa sull’annullamento delle ultime gare, è risultata del tutto inutile.

Mancano gli sponsor e la giusta visibilità

In questi quattro anni, nessuno – eccetto Puma – ha investito sulla W Series e nemmeno nei prossimi anni sembra esserci qualcuno all’orizzonte interessato a scommettere il proprio capitale. Un segnale cruciale perché fa capire la totale assenza di appeal del campionato, e non è un caso se David Coulthard – il primo tra i volti noti della Formula 1 – si stia tirando notevolmente indietro chiedendo, allo stesso tempo, di essere ripagato per le ingenti somme impiegate.

Eppure, i numeri social sono a favore della W Series: 109.000 followers su Facebook, 261.000 su Instagram, 103.000 su Twitter e 53.800 su YouTube. Numeri superiori se paragonati a campionati di spicco quali il Fanatec GT World Challenge Europe powered by AWS o il FIA WTCR, oppure lievemente inferiori ad altri come l’IMSA, il DTM, la Formula 3 e la Formula 2. Il grattacapo sta molto più alla base: la credibilità della serie stessa.

Se guardiamo alle ultime tre edizioni della F.3 e della F.2, i due step per raggiungere la tanto agognata F.1, non hanno visto nessuna donna della W Series al via, così come altri campionati licenziati dalla Federazione o di alto livello (internazionale e continentale). Pochissime le eccezioni: Chadwick (Extreme E), Jessica Hawkins (BTCC), Fabienne Wohlwend (24 Ore del Nürburgring), Alice Powell (IMSA), Esmee Hawkey (DTM) e Beitske Visser (FIA WEC).

La partecipazione gratuita (non) è un buon compromesso

Ecco, il problema è stato trovato: la W Series funge come sorta di “parcheggio” sicuro per la propria carriera per uno o più anni perché, come abbiamo detto prima, la partecipazione è gratuita. Addirittura, le prime otto classificate sono iscritte in automatico all’edizione successiva, occupando posti che, invece, potrebbero andare ad altre ragazze da allevare e far crescere.

Il fallimento è plateale quando, per tre volte su tre, eleggi la stessa campionessa. Chadwick dovrebbe essere già in Formula 3 – anche se molte colpe sono sue, come abbiamo già spiegato in un altro editoriale.

Le ragazze che vanno dannatamente veloci o che hanno l’obiettivo di diventare delle professioniste hanno snobbato la W Series e si stanno togliendo le loro soddisfazioni, trovando altre strade per potersi sostenere a livello economico. Facciamo solo alcuni nomi, tra i tanti: Michelle Gatting, rifiutata nel 2019, è tra le file di Iron Dames nel GT; anche Doriane Pin sta maturando nel GT con Iron Dames; Maya Weug, sotto la guida della Ferrari Driver Academy, sta affrontando la Formula 4 italiana; Sophia Flörsch ha maturato diverse esperienze e svilupperà l’auto elettrica del DTM; Tatiana Calderon, con l’appoggio di Richard Mille, ha corso nell’IndyCar Series.

Certo, molte di loro hanno la fortuna di avere una valigia piena di banconote da presentare o le spalle coperte da qualcuno di importante, ma se hanno questa fortuna ben venga che la sfruttino.

La W Series deve cambiare parte della propria struttura se vuole sopravvivere: non dovrebbe solo offrire un montepremi, ma anche accompagnare le più veloci nelle fasi successive delle loro carriere, quelle considerate più delicate. Altrimenti è un campionato fine a sé stesso, utile solo per raccontare una bella favola da accompagnare alla narrativa recente della Formula 1.

Copyright foto: W Series

Luca Basso:
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