“Muore giovane chi è caro agli dei” scriveva secoli fa Menandro: ma noi non siamo avvezzi né alla retorica né a credere agli idoli falsi e bugiardi, perciò non ci resta che fare i conti con il vuoto che lascia un ventenne che stava creandosi il proprio spazio nel mondo del motorsport, ovvero Anthoine Hubert.
L’incidente che ci ha portato via Anthoine Hubert
In un mostruoso incidente avvenuto ieri in Gara 1 della Formula 2, di scena a Spa, il pilota francese di soli 22 anni ha perso la vita in uno schianto all’uscita della velocissima Eau Rouge. Ne ha parlato in dettaglio il nostro Luca Basso, confermando in seguito la notizia ferale e che vede anche uno strascico doloroso per un altro pilota coinvolto nell’impatto, ovvero Juan Manuel Correa (sopravvissuto ed in condizioni stabili, ma con danni che al momento vanno ancora quantificati nella loro portata).
Hubert avrebbe compiuti tra poche settimane 23 anni, e aveva una carriera davanti a sé nel mondo dei motori sportivi tutta da costruire. Il pilota del team Arden era reduce dal titolo conquistato l’anno scorso nella GP3 Series (e prima ancora nella Formula 4 francese nel 2014), ha condiviso parte della sua breve ma intensa strada con colleghi come Esteban Ocon, Charles Leclerc e Max Verstappen e quest’anno ha debuttato nella Formula 2 vincendo due gare. Attualmente era settimo nel campionato.
Non un fenomeno, ma un onesto e capace pilota in fase di crescita, entrato di recente nell’orbita di Renault tramite la sua Academy di giovani potenziali talenti. Tutti assicurano fosse una persona eccezionale dal punto di vista umano, e non nutriamo alcun dubbio in merito: ogni pilota ed atleta, salvo sparute eccezioni, cela un lato personale di valore. Ciò non fa che aumentare il dolore per la perdita di un ragazzo che la mattina non poteva immaginare che avrebbe lasciato questo mondo nel pomeriggio, e che improvvisamente lascia un vuoto asfissiante per la famiglia, amici, colleghi e tifosi.
Subito sono partiti i parallelismi con icone tragiche del motorsport (Gilles Villeneuve, Ayrton Senna, Jules Bianchi) e con incidenti con molti punti in comune, come quello di Alex Zanardi al Lausitzring nel 2001 (entrambe le monoposto colpite da un altra vettura nella fiancata laterale, con la differenza del punto di impatto più spostato in avanti per il pilota bolognese). E subito è cominciata la ridda delle opinioni, del “si poteva evitare”, di chi ha sbagliato cosa, di come sono state predisposte le vie di fuga in quel punto della pista di Spa e via così.
L’onere del rischio nel motorsport
Sì, si poteva evitare, come si possono evitare tanti incidenti professionali che hanno effetti permanenti se non letali su chi li subisce. Lewis Hamilton ha scritto sui suoi profili social che il mestiere dei piloti, nonostante i tanti passi avanti fatti, resta sempre in bilico tra la vita e la morte quando si scende in pista. Ed ha aggiunto, con una vena polemica, che spesso le persone che seguono le gare non comprendono la posta in gioco che mette sul tavolo chi occupa un sedile di guida. «Per quello che mi riguarda, Anthoine è un eroe che si è assunto i rischi dell’inseguire i propri sogni», ha concluso il pilota Mercedes.
Ma ci chiediamo comunque se sia giusto perdere la propria vita così, per un “sogno” inseguito a circa duecento chilometri orari. Ebbene, le categorie di giusto e sbagliato assumono nel motorsport, una volta che ci si cala il casco, un peso tanto relativo dall’essere a volte inconsistente, privo di significato. Ha senso rischiare la vita per una gara? No, diremmo noi spettatori (e anche molti piloti, primo in testa Jackie Stewart). Al di là di qualche spacconata come quelle dell’allora pilota di F1 Jaime Alguersuari o di Kevin Magnussen quando dichiarava il proprio fastidio per il sistema di sicurezza dell’Halo (affermando qualche tempo fa, assurda ironia della sorte, come ostacolasse la visione in alcuni punti dei circuiti come lo stesso Eau Rouge di Spa), nessuno vuole mettere a rischio la propria vita in gara, ma convivono tutti con l’eventualità, come ha fatto capire Hamilton.
I trofei, i successi, le pole, i record, la gloria: tutto perde senso di fronte all’integrità della propria vita, ma i piloti accettano ogni weekend e in ogni competizione di percorrere un metaforico tracciato impervio e disseminato di punti estremamente pericolosi, perché alla fine per quanti sacrosanti progressi si facciano sulla sicurezza è ineluttabile convivere con la morte quando scendi in pista o disputi una prova speciale, che sia la F1, una serie regionale delle Formule, un Turist Trophy, la Dakar oppure il WRC. Quell’ineluttabile con cui ieri si è scontrato, avendo purtroppo la peggio, Anthoine Hubert.
Nella foto: l’omaggio di piloti e team di F1, F2 e F3 alla memoria di Anthoine Hubert, avvenuto oggi sul circuito di Spa